L’inclusione è la nuova resilienza?
La prima volta che ho sentito una forte ribellione nei confronti di alcune parole legate alla disabilità ero in un’aula e stavo tenendo un corso di fundraising, di fronte a una ventina di rappresentanti di associazioni, alcuni si occupavano di disabilità e parlavano dei loro beneficiari in modo pietistico e paternalistico. La parola più diffusa era allora integrazione, figuratevi la loro sorpresa quando dissi che odiavo questa parola con tutto il mio cuore perché non significa vera accoglienza dell’altro, vera accettazione, ma presuppone un cambiamento nei soggetti che si devono integrare. Secondo il vocabolario Treccani infatti, integrazione significa “integrare, rendere intero, pieno e perfetto ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo, aggiungendo quanto è necessario o supplendo al difetto con mezzi opportuni”. In poche parole uno si eleva fino a raggiungere l’altro e l’altro si abbassa per farsi raggiungere. In poche parole nessuno è libero di essere quello che è.
Fortunatamente la parola integrazione è sparita, o meglio, si è ridotto l’uso all’interno del linguaggio sulla disabilità. Voi direte “beh, sicuramente è stata scelta una parola migliore” E invece no, siamo caduti dalla padella alla brace! Da un po’ di tempo a questa parte non si sente parlare altro che di inclusione e di inclusivo: inclusione sociale, moda inclusiva, linguaggio inclusivo, addirittura una sera a Superquark un dottore con un simpatico papillon ha parlato di inclusione sessuale. Mi sono immaginata un incontro galante, durante il quale uno dei due partner dice all’altro “ehi vuoi venire su da me a vedere la mia collezione di inclusioni sessuali?”. Al solo pensiero mi vengono i brividi.
Ma andiamo con ordine. Dicevo che detesto la parola inclusione. Il vocabolario Treccani definisce inclusione “l’atto, il fatto di voler includere, cioè di inserire, di comprendere in una serie, in un tutto”. Se penso all’inclusione mi viene in mente l’insiemistica in matematica, secondo la quale l’inclusione è la relazione dove uno dei due insiemi include l’altro come proprio sottoinsieme. Una relazione di potere, all’interno della quale chi include è più forte. Come se l’inclusione fosse un favore che si concede a chi viene incluso.
Io non voglio essere inclusa, io vivo e abito questo mondo come tutti gli altri.
La parola inclusione non va bene, perché è soffocante, è statica non permette il cambiamento culturale, anzi mantiene lo status quo. Anche l’inclusione può diventare discriminatoria.
Non è vera inclusione quindi se nel tempio della “cultura accessibile a tutti”, quale è l’università, io non sono libera di assistere alla tesi di mia nipote perché ci sono barriere insormontabili tali da dover chiedere aiuto a un estraneo per raggiungere l’aula magna. O se per fare una docenza devo aspettare che mi diano un’altra aula perché non avevano previsto una docente con disabilità. Oppure in Chiesa, luogo sacro per eccellenza dove tutti dovremmo essere considerati uguali di fronte a Dio, non poter entrare dalla porta principale con la mia fiammante sedia a ruote durante il funerale di una persona a me molto cara, ma dover fare un lungo tragitto, entrare da una porta secondaria e perdere così buona parte del rito funebre e dell’ultimo saluto.
Questa non è inclusione, questo è un favore che ci fanno, un modo per continuare a sentirsi più buoni. Se devo entrare da un’entrata secondaria non ho uguali diritti e pari dignità. Le dinamiche che generano l’esclusione sono rimaste uguali. È adattarsi a un mondo precostituito che non prevede che ci sia anche io. E se io non sono prevista è un problema loro, non può e non deve essere un problema mio.
Siamo tutti dentro, nasciamo parte del mondo. Bisogna conferire uguale dignità a ogni differenza.
L’inclusione, invece, per esistere ha bisogno di categorie nelle quali far rientrare chi ne è stato arbitrariamente escluso.
Ultimamente la parola inclusione è messa in discussione da più parti e alcuni vorrebbero sostituirla con “convivenza”. Ma cos’è questo bisogno impellente di dover incasellare subito in un’altra definizione qualcosa che semplicemente è, qualcosa che semplicemente appartiene a tutti?
Per ottenere un vero cambiamento, una vera rivoluzione culturale, non abbiamo bisogno di vecchi schemi o nuove etichette. Bisogna creare un nuovo mondo, più adatto al rispetto della dignità di ciascun essere vivente.
Dai, ce la possiamo fare… Di questo passo sparirà anche resilienza. Ve lo prometto.
N.b. In questo articolo non ho volutamente utilizzato la schwa e il linguaggio inclusivo per far sì che Sirio e altre persone con neurodiversità e con difficoltà di comunicazione riescano a leggerlo. Sì perché, se da una parte il linguaggio “inclusivo” permette a molte persone di sentirsi riconosciute, di fatto esclude molte altre persone per le quali anche un semplice asterisco può essere un ostacolo insormontabile.
Forse è arrivato veramente il momento di pensare insieme un nuovo linguaggio che comprenda veramente tutti.
Armanda Salvucci